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   carè alto via cerana, 21/09/2019
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Onicer  oscarrampica   
Regione  Lombardia
Partenza  pian delle seghe (1200m)
Quota attacco  2900 m
Quota arrivo  3462 m
Dislivello  500 m
Difficoltà  AD- / III ( II obbl. )
Esposizione  Est
Rifugio di appoggio  rif, carè alto
Attrezzatura consigliata  corda 30 mt
Itinerari collegati  nessuno
Condizioni  Ottime
Valutazione itinerario  Eccezionale
Commento Sembra ieri. Eppure son passati due anni da quel giorno d’estate in cui sfidavamo i nostri bimbi a calcio su quel praticello accogliente e ben rasato di un parchetto in riva al Serio. Poi Ste scivola col sandalo sull’erba umida e lo vedo come in un cartone animato librarsi orizzontalmente in aria eppoi come Vil il coyote precipitare a terra pesantemente. Da ridere, se non che è evidente il dolore in Stefano( so che lui è un guerriero, l’ ho accompagnato giù da Rogno con la caviglia sfasciata, dopo che era volato sulla via delle formiche!). Prima conseguenza, la rinuncia alla progettata per qualche giorno dopo gita al Carè. Poi 2 anni di dolori che ancora totalmente non son risolti. Comunque, complice buona parte della mia famiglia in vacanza e la possibilità di cambiare i turni riusciamo a partire domenica pomeriggio 12/08 e arriviamo al parcheggio di Pian delle seghe attorno alle 17.30. Alle 18 partiamo e dopo pochi passi assisto impotente al progressivo disfacimento dei miei scarponi Trango che erano da un poco di tempo a riposo. Li scoccio col mitico nastro rosa che altre volte(vedi coca) mi ha tolto d’impaccio e proseguo fiducioso nella riparazione. Ste tira come un mulo, gli scarponi stanno insieme e in 2 ore arriviamo al rifugio Carè Alto a 2500 mt di quota. Poca gente, tanta cortesia . Mangiamo, beviamo, ste si fa la doccia, camera tutta per noi. Mi sembra di essere in un altro mondo rispetto alla durezza dell’esperienza sull’Aletschorn. Facce diverse della stessa passione. Scherziamo prima di addormentarci, sembriamo due ragazzini spensierati. Ci voleva. Partiamo nel buio non freddo delle 5 dopo che ho incerottato i miei scarponi che si sono praticamente aperti. Alle 5.30 la chiara tonalite di questo gruppo s’inebria di rosa e ci regala la prima vista sulla nostra montagna. Il colpo d’occhio sulla vedretta di Lares è impressionante con tonalità pastello che virano dal rosa all’azzurro. Poco dopo il sole sorge alle nostre spalle oltre i monti e oltre le nubi, illuminando la parete che dovremo affrontare e che si alza davanti a noi come un istrice dalle molteplici punte. Rimbalziamo di cresta in cresta e di cannone in cannone per la gioia e l’entusiasmo di Ste, amante dell’Ars Bellis. Poco dopo le 6 mettiamo piede sul nevaio che cinge la parete est del Carè e sebbene dura sia la neve cerchiamo di salire senza mettere i ramponi. Poi ritorniamo sul filo di cresta in direzione del ghiacciaio che grigio sembra un disco volante atterrato in emergenza fra i blocchi. Qualche passo delicato su neve gelata e altri a cavallo della crepa fra il ghiacciaio e la roccia e un vistoso segno rosso sopra di noi, indicandoci la via. Sono le 7.15 e qualche passo di II° grado su roccia fantastica ci guida all’attacco vero e proprio della paretina Cerana. Purtroppo stanno armeggiando altre tre persone che non ci concedono il passo e dobbiamo attendere un poco che terminino il tiro. Ste vorrebbe salire in conserva ma a me non convince(poi avrà ragione lui, in effetti è un terzo grado basso e per nulla difficile). Un oretta dopo siamo in cresta e fatta qualche foto salutiamo i tre e ci lanciamo sulla profilata cresta in direzione del cielo. Ste mi invita ad andare avanti e lo faccio con piacere: in effetti queste cavalcate nel blu senza corda sono il terreno che preferisco: esposizione ma al tempo stesso gradi non eccessivi e necessità di attenzione per intuire il percorso migliore. Uno sguardo ammaliato alla vedretta di Lares che nonostante i segni di scongelamento precoce è veramente molto bella e iniziamo a procedere veloci vs il cielo appoggiandoci sul lato nord talvolta quando le guglie sono insormontabili o troppo aeree. La roccia è superlativa, l’aderenza da fantascienza e pare d’esser sulla luna ad arrampicare. Poco prima delle 9 arriviamo ad un grosso insediamento militare provvisto di cannone dove ci mettiamo a rovistare alla ricerca di bossoli che facilmente rinveniamo. La croce di vetta è ormai qualche decina di metri di cresta più avanti e occhieggia fra l’andirivieni delle nubi che s’impigliano fra le rocce. Arriviamo così al piccolo intaglio che precede la cuspide finale che estetica e slanciata vs il blu ci regala una piccola ma piacevole arrampicata finale. Alle 9.15 ci abbracciamo attorno alla piccola punta con croce di vetta contemplando la bellezza di quanto ci circonda. Poi ci mettiamo a cercare dove scendere puntando la cresta vs nord e individuati i bolli rossi passiamo per altri punti militarizzati fino ad un esposto passaggio che ci permette di raggiungere un blocco a forma di naso dal quale facciamo una calata di un paio di metri e oltre il quale continuiamo a scendere lungo la cresta. Sotto di noi piano il ghiacciaio s’avvicina e scendiamo ancora un poco disarrampicando fino a quando un canale attrezzato ci attira per le ultime probabili doppie. Facciamo la prima con la nostra cordina da 30 mt.. Ste scende e io lo raggiungo . Mi libero dalla corda e per farmi spazio appoggio il braccio sulla grossa roccia a cui è avvolto uno spezzone di corda arancione per la prossima calata. Il masso si sposta con quella lentezza inevitabile propria delle grandi masse. in pochi istanti che sembrano durare un tempo infinito il masso cede trascinando parte del terreno sul quale eravamo appoggiati; scendiamo solo di pochi centimetri prima di assistere esterrefatti all’inferno che si sposta sotto di noi ma senza precipitare. Ste comincia ad urlare ed insultarmi, poi quando tutto si placa,si calma e ragioniamo sull’assurdo di ciò che è successo (è precipitato un masso sul quale altri si erano calati!!!). Ci riprendiamo dallo spavento e guardiamo sbigottiti la sosta preparata poco sotto e il canale dal quale dovremo calarci che è perfettamente sotto la linea di scarica degli enormi massi che si sono impilati l’uno sull’altro. Aspettiamo come in una smisurata preghiera di capire se qualcosa si muove e poi spauriti ci caliamo. Ora siamo un pochino più riparati ma se dovessero partire i massi da sopra la fine sarebbe solo probabile anziché certa. Proviamo a muoverci veloci ma non troviamo l’ultimo salvifico anello di calata, se non un cordino appeso ad una lastra quasi orizzontale che è vero che verrebbe caricata dal basso ma che non convince Ste il quale mi invita ad affrontare l’ultimo pendio ripido nero e ghiacciato che ci divide dall’approdo al bianco nevaio più sotto. Parto deciso e con la picca che scheggia il duro scendo una decina di metri finchè sbattendo il rampone del piede dx contro la parete, salta tutto. Guardo esterrefatto il rampone ciondolante e cerco vanamente di rifissarlo: non ci riesco. Alzo gli occhi alla ricerca di Ste mentre contemporaneamente l’acido lattico comincia a riempirmi la gamba sx che pure è ben ancorata ma che non può reggere da sola quell’innaturale posizione. Anche la picca è sicura e sotto sforzo perché praticamente appeso, grido a ste di ancorare la corda alla roccia insicura e di gettarla. Nel frattempo guardo vs il basso per provare a prevedere l’esito di una probabile scivolata: ho paura di prendere troppa velocità sul ripido nero durissimo e poi di non fermarmi sul nevaio sottostante per cui scarto l’ipotesi di lanciarmi e provare a frenare con la picca. Poi mentre il quadricipite sx è gonfio come dopo 800 mt di corsa e pare sul punto di esplodere il nastro blu corre rapido vs di me: lo afferro come una mano che ti salva e articolando improbabili contorsioni riesco a passarlo nel secchiello. Poi provandomi ad esercitare più attrito possibile contro il ghiaccio, inizio lentamente a calarmi: regge tutto e piano piano arrivo quasi in fondo al nero. la corda salta fuori dal secchiello: con uno schiocco sono libero e inizio a prender velocità ma nel nevaio mi arresto quasi subito. Col cuore in gola mi alzo e mi allontano da quella zona minacciosa cercando di portarmi fuori dalla linea della frana bloccata. Osservo ancora scosso Ste scendere tranquillamente e raggiungermi come se nulla fosse successo. Sono le 11 del mattino,ci guardiamo, comprendiamo e finalmente do un occhiata allo scarpone dx che è completamente disintegrato. La suola di carrarmato si è completamente staccata e l’intersuola penzola come una lingua di cane assetato. Ci sarà da divertirsi se troviamo del ghiaccio duro come appare probabile nell’attraversamento della vedretta. Discutiamo del programma seduti a ritranquillizzarci e ad osservare con un poco di apprensione la gente in cresta che dovrà scendere e il cielo che si imbroncia sempre più. Poi il vento si alza e la bufera ci colpisce sotto forma di pioggia gelata. Ste apre la strada e io lo seguo scivolando spesso sul mio ridicolo resto di scarpone. Intanto scendiamo leggermente sul nevaio cercando di individuare il punto migliore per traversare la vedretta ghiacciata e arrivare alla morena che rappresenterà per me la fine delle difficoltà. Con percorso ondivago cominciamo la traversata cercando i punti più piatti o carichi di detrito. La mia andatura è ridicola, barcollo come una papera ubriaca attento solo a non scivolare e ribaltarmi e ogni passo è tolto a quanto mi manca alle rocce. Ogni tanto nei tratti più inclinati chiedo a stefano di aspettarmi e sorreggermi perché lo scarpone, liscio come una scarpetta d’arrampicata, scivola come una saponetta sul ghiaccio. Mi aiuto anche con il bastoncino e finalmente faccio gli ultimi metri sollevato e approdo sulla terraferma a mezzogiorno. Il tempo è inclemente, siamo sferzati da acqua, vento e minacciosi nuvoloni grigioneri come aquiloni impazziti solcano il cielo sopra e attraverso noi. Sembriamo barche in balia di un mare burrascoso di nubi. Scendiamo sulle rocce viscide,guidati da tanti begli ometti in pietra, io un poco rallentato dalla paura di scivolare e dopo un ‘ora di maltempo finalmentesmette di piovere. Un timido ma allegro sole illumina i ciuffi d’erba che ci segnalano il ritorno alla vita, alla dimensione materna della montagna. Alle 13 riacciuffiamo il sentiero che ci riporterà quasi in orizzontale vs dx al rifugio e ci divertiamo ad attraversare il ponte tibetano costruito per traversare il torrente. Un quarto d’ora dopo una bella scala caratteristica in pietra ci fa attraversare il caratteristico bus del gat che ci consegna il termine delle nostre fatiche. Entriamo nel rifugio anche per raccontare del pericolo della via di discesa percorsa(il gestore ci informa che ieri causa frana è stata portata via in elicottero una ragazza e che noi abbiamo anticipato la discesa sul ghiacciaio, perché avremmo dovuto continuare ancora un poco per la cresta). Poco dopo le 16 siamo nuovamente al parcheggio felici per le emozioni vissute di una giornata passata insieme in montagna dopo tanto tempo. Alla prossima Ste.
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