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   cime di caronno(via baroni), 16/10/2014
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Onicer  oscarrampica   
Regione  Lombardia
Partenza  valbondione (950m)
Quota attacco  2600 m
Quota arrivo  2950 m
Dislivello  350 m
Difficoltà  PD / II ( II obbl. )
Esposizione  Nord-Est
Rifugio di appoggio  bivacco corti
Attrezzatura consigliata  ramponi casco cordino eventualmente picozza (tratti in ghiaccio verso la crepaccia terminale che possono arrivare attorno ai 40 45 °
Itinerari collegati  nessuno
Condizioni  Buone
Valutazione itinerario  Ottimo
Commento Mentre guido nella notte verso valbondione continuo a pensare se sia la scelta giusta quella di partire da casa alle 22 per salire a dormire all’invernale del coca.
Parto a mezzanotte scivolando guardingo e furtivo fra i massi rubando il silenzio al bosco e ascoltando le immagini del mio cuore che mi convincono della scelta fatta. Non so se sia il buio(fantastica la nuova tikka rxp) l’età o l’ora tarda ma faccio il record di salita al coca:2h non c’avevo mai messo tanto! O forse la colpa è della luna che sorge improvvisa dalle pendici del re castello e mi costringe a fotografarla a più riprese seducendomi ad ogni svolta del sentiero.
Alle 2.30 dormo e sbagliando sveglia mi alzo alle 7.30 vanificando il tempo che volevo guadagnare con la salita notturna.
Un alba livida e una colazione d’acqua gelata al laghetto di coca sono l’antipasto alla prima portata che è la risalita del passo coca.
Però qui nella conca dei giganti oggi tutta per me sto proprio bene e sogno il tempo che verrà in cui magari salirò solo per restarci:oggi sono ancora un condannato alla salita, ma mi godo i ricordi che increspano l’acqua del lago cadendo da ogni parte io volga lo sguardo: pareti canali anfratti esplorazioni sogni obiettivi successi sconfitte si intrecciano alle nubi che accarezzano le cime.
Alle 10 appena oltre il passo calzo i ramponi e mi dirigo verso il costolone che mi sono ben impresso nella memoria avendo sbagliato 15 gg fa: dovrò solo trovare il punto giusto per superare la crepaccia terminale e agguantare la roccia sperando che la neve spruzzata in alto non complichi troppo la faccenda.
Trovo un punto perfetto in cui la neve finisce appena sopra un piccolo pianoro dove mi siedo per travestirmi da alpinista e cominciare ad arrampicare. Sono le 10.30.
Salgo rapido la ripida placca articolata che tocca il II° grado e che mi deposita circa 30 mt più sopra sul descritto, da alcune relazioni, cengione d’attacco: è bello in questo mare di ghiaccio sotto e roccia sopra ,dimenticato dagli uomini, trovare un punto che ti ricollochi fuori dall’ignoto e dal mistero.
Ora il crinale s’allarga e s’appiattisce e l’occhio può spaziare qualche decina di metri sopra fra pietre piodesse e cumuli di sfasciumi. Si sale usando le mani abbastanza spesso e camminando meno con difficoltà tra il 1° grado e il 2°, evitabile ma piacevole, di qualche rara placca di buona roccia.
Nel complesso le difficoltà decrescono salendo inversamente alla soddisfazione di essere nel regno misterioso di Caronno abitato solo dal volo di pernici bianche che purtroppo disturbo dal loro isolamento ma sembran quasi applaudir d’ali la mia presenza rispettosa e timorosa.
Poi alle 11.30 termina il costolone e son preso dallo sconforto perché ora dovrei arrivare ad un passo sulla cresta e volgere a dx per la cima e invece la cima più alta è evidentemente a sx: è il bello della diretta e dell’esplorazione in queste lande desolate e difficili da descrivere e fra l’altro la cresta a dx mi sembra a nche ardua da raggiungere perché prevede un traverso su placca completamente imbiancata.
Un senso d’inquietudine mi accompagna mentre scendo un canalino a sx per poi risalirne un altro che mi porta verso la cima secondo me principale: ormai i passi sono di misto scisto orobico.
Qualche passo deciso e, superato un breve canalino marcio che non farei più in discesa ,ritrovo lame di roccia solida che mi depositano a mezzogiorno sferzato dal vento di vetta sulla sommità in un misto d’entusiasmo e apprensione ma anche di rabbia perché ora che la vista è libera dagli errori di prospettiva vedo davanti a me senza più dubbi la cima principale di caronno.
Ora mi calmo e lascio spaziare lo sguardo a 360° respirando il vuoto che incombe da ogni parte: m’illumino d’immenso osservando il Coca i Druet i gruppi dell’Adamello dell’ortles e della cima viola e poi ancora bernina disgrazia badile e poi ruotando di vertigine oltre la piana padana il gruppo del Rosa più grande delle distanze ci riporta alle orobie e al loro vertice alpinistico rappresentato dalla costiera di Punta Scais dove termina l’infinita cresta corti capolavoro geologico di queste terre di nessuno e anche il mio giro panoramico.
Ritorno in me e ai miei timori e decido subito che non proseguirò lungo la cresta verso la cima del lupo,come originariamente progettato. Ttroppo aerea per essere percorsa da solo in queste condizioni quasi invernali ed escludo anche di scendere da dove sono salito perché troppo rischioso. Faccio foto e foto abbandonandomi al magnetismo che esercita su di me la punta di scais e la sua immane da questa prospettiva parete nord; è stata probabilmente la montagna che più ho desiderato di scalare e il vuoto mi aiuta a rivedermi felice lassù rendendo saldando spazi temporali altrimenti inavvicinabili.
Faccio foto e foto perché tergiverso nel tentativo di allontanare la decisione di scegliere da quale parte scendere.Opto per raggiungere la vetta principale sia per il desiderio di salirla e perché convinto che poi quel labirinto di rocce accatastate e coperte di neve dovrà pur poi rivelare una traccia che ancora i miei occhi non vedono in questo labirinto d’alta quota dove mancano i sentieri ma abbondano i precipizi.
Scendo per facili rocce solo un poco esposte al colletto fra le due cime e dando un occhiata impaurita al canale innevato che probabilmente poi dovrò scendere sperando che dalla cima tutto sia più chiaro e magari più facile.
Qualche tirone su lame che speri non decidano di perdere proprio ora il loro millenario precario orobico equilibrio e mi ritrovo abbracciato all’omone di cima.Sono felice (ah come sarei felice se non dovessi pensare alla discesa) e allora stappo nuovamente per brindare la macchina fotografica.
L’ultima foto mi riporta alla realtà: per la discesa non ci sono alternative se non aver le ali di quel corvo che gracchia sopra di me il suo saluto portandosi via nel suo volo anche le mie paure. Ridiscendo ancora al colletto di cresta fra le due cime e intuisco che se riesco a scendere il canale innevato sotto di me e poi attraversare risalendo un poco l’altro versante dovrei arrivare dove mi trovavo circa un ora prima a decidere di virare verso la cima di sx. Il problema è quello strato di neve gelata che ricopre tutto da questo lato. Scendo con il cuore in gola rimandando la decisione di mettere i ramponi ad ogni passo perché ho più paura di scivolare con le punte grattando sulle lisce lastre che sento sotto la gomma dei miei scarponi. Ancora l’ultimo salto e termino la discesa inquadrando il passo della salvezza quindici metri più su in diagonale; risalire dovrebbe essere un poco più semplice e così sforzandomi di non accelerare dalla gioia per restare concentrato mi ritrovo sul costolone dove presto trovo traccia nella neve del mio precedente passaggio;urlerei dalla gioia e l’urlo vibra dentro di me sciogliendo la tensione dell’ultima ora:sono a casa.
Scendo stando piùa sx faccia a valle della linea di salita incontrando difficoltà che mi sembrano minori fino a quando vedo la neve alla mia sx risalire il canalone fra questo costolone e quello più settentrionale risalito erroneamente l’altra volta.
Per una magnifica placconata di una cinquantina di metri di II°mi abbasso verso la crepacciata con difficoltà negli ultimi 5 metri attorno al III° grado che mi costringono prima a ragionare sugli spostamenti di piede e poi a fermarmi circa 3 metri sopra il pavimento interno della crepaccia con gli scarponi poggiati sugli ultimi appigli che vedo.
Tornare su per cercare di scendere da dove son salito stamattina mi sembra assurdo ora che sono a un salto dalla fine. Ma Saltare non posso perché sfonderei il ponte di neve cacciandomi nel buco di sotto che prosegue per almeno 5-6 metri nelle viscere della montagna e allora mi appendo con le mani agli appoggi dove avevo i piedi cercando con gli scarponi un punto dove fare almeno un poco d’aderenza su quei pochi metri di roccia bagnate e verticale.
La ricerca dura pochissimo interrotta dal volo che cerco di dirigere a mo di yo yo rimbalzando sulla neva da un lato e sulla roccia dall’altro e cercando di evitare il buco sotto di me.
Va tutto bene e mi trovo ansimante intero e con il cuore che batte forte in gola appoggiato all’esile ponticello di neve che se comunque ha retto il mio peso dopo il volo quasi libero dovrebbe tenere anche le scosse del mio respiro agitato. Bevo, provo vanamente a riconquistare un respiro decente, abbranco una splendida fessura in diagonale che con un paio di passi d’aderenza mi porta in salvo su neve portante e fuori dal provvisorio freezer nel quale ero cascato. Salto di gioia fuori dalla crepaccia e quel mondo di ghiaccio e roccia che è questo angolo orobico chiamato vedretta del lupo mi par bello come un oasi raggiunta nel deserto. Sono le due del pomeriggio.
Ora calzerò i ramponi e camminerò fino al al passo di coca e poi li toglierò e salterò giù per la pietraia felice come un ragazzino e poi sarà verde e poi sarà giallo e poi sarà rosso come i colori di questo autunno che gioca a vestir di festa i bosche e i fianchi delle montagne prima di consegnarle al bianco bacio della sposa d’inverno.
foto 1 l'itinerario
foto2 panorama dalla cima
foto 3 la placca finale disarrampicata
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